Nel seguito ci occuperemo principalmente di contatori (photon counting devices), e cioé di rivelatori che hanno la capacità di rivelare ogni singola interazione di ogni singolo fotone. Questo non é l'unico modo di rivelare la radiazione elettromagnetica con rivelatori, ma é di gran lunga quello più utilizzato in astronomia X. (NOTA: ad esempio in astronomia ottica questo non é il modo d'uso prevalente)
A seguito dell'interazione della radiazione con il materiale che compone
l'elemento o gli elementi sensibili del rivelatore, l'energia del fotone
incidente viene, in tutto o in parte, rilasciata nel materiale stesso.
In alcuni rivelatori questa interazione porta alla creazione all'interno
del rivelatore stesso di una piccola quantità di carica elettrica.
In altri la carica elettrica viene generata indirettamente (ad esempio
negli scintillatori accoppiati a tubi fotomoltiplicatori). Successivamente
questa carica viene raccolta per formare un segnale elettrico che verrà
poi analizzato. Indichiamo con tc il tempo necessario
a questa raccolta di carica.
Nei rivelatori nei quali la carica elettrica viene generata all'interno
del rivelatore stesso, essa viene raccolta mediante l'applicazione al rivelatore
di un campo elettrico che convoglia elettroni e ioni in direzioni opposte.
Il tempo necessario per la raccolta di queste cariche varia grandemente
nei diversi tipi di rivelatori e, in dipendenza del tipo di analisi della
carica raccolta, può essere visto come il tempo caratteristico di
``reazione'' del rivelatore all'interazione del fotone incidente.
In altri tipi di rivelatori che discuteremo, l'energia del fotone incidente
viene convertita in parte in fotoni nel vicino ultravioletto o nel visibile:
un breve e flebile lampo di luce la cui intensità é proporzionale
all'energia depositata nel rivelatore. Questi fotoni V o UV vengono raccolti
su un rivelatore di luce come ad esempio un tubo fotomoltiplicatore: é
quest'ultimo dispositivo che converte i fotoni di luce V o UV in una piccola
quantità di carica.
Sia il rivelatore di un tipo o dell'altro, l'interazione della radiazione genera un breve impulso di corrente, il cui integrale é appunto la quantità di carica prodotta nel rivelatore.
I rivelatori possono funzionare in corrente o a singolo impulso. Non tratteremo il caso del funzionamento in corrente, che in sostanza non distingue fra le singole interazioni dei fotoni con il rivelatore, ma fornisce una corrente media che é il prodotto del tasso di interazioni per la quantità di carica depositata da ogni interazione. Rivelatori di questo tipo sono utilizzati ad esempio in dosimetria.
Nel caso di nostro interesse, lo schema base di un rivelatore può
essere quello riportato in Figura 2.4.
In questo schema, R é la resistenza di ingresso del circuito e C rappresenta la capacità equivalente che, se il rivelatore é connesso ad un preamplificatore, corrisponde alla somma delle capcacità del rivelatore, del cavo di connessione e del preamplificatore.
V(t) é il segnale su cui l'operazione in singolo impulso é
basata. Indichiamo con =RC
la costante di tempo fondamentale del circuito. Nel nostro caso assumiamo
che
In
questo caso durante tc la corrente del rivelatore sarà
temporaneamente integrata sulla capacità C. L'ampiezza dell'impulso
così ottenuto Vmax é data dal rapporto
fra la carica generata nel rivelatore Q e la capacità C (Vmax
=
).
C é normalmente una costante. Ne risulta quindi che l'ampiezza dell'impulso
é proporzionale alla carica generata all'interno del rivelatore,
che, come abbiamo accennato, é legata all'energia depositata dal
fotone nell'interazione con il rivelatore.
Ogni singola interazione di un fotone nel rivelatore darà quindi
origine ad un singolo impulso.